In Comptes Rendus, 88 (6 gennaio 1879) {A-0080.0088_.0001.18790106-0026_0027} p. 26-27 ➤ e Astronomische Nachrichten, 94, No. 2239 (31 gennaio 1879) {A-0073.0094_.2239.18790131-0097_0100} p. 97-100 ➤ l’astronomo austriaco Theodor von Oppolzer pubblicò una nuova orbita del pianeta intramercuriale, diversa da tutte quelle calcolate da Le Verrier, basandosi sulle osservazioni di macchie dal 1800 al 1862; previde un transito per il 18 marzo 1879. La sua analisi fu stroncata da C.H.F.Peters in una lettera del 1° marzo 1879, pubblicata in Astronomische Nachrichten, 94, No. 2251 (28 marzo 1879) {A-0073.0094_.2251.18790329-0303_0304} p. 97 ➤ . All’epoca di pubblicazione di questa lettera, la data del 18 marzo era passata senza che fosse stato osservato alcun oggetto, per cui nella stessa pagina la rivista inserì una nota del 21 marzo, in cui Oppolzer ammetteva che gli elementi da lui calcolati non si potevano più considerare attendibili. Poco dopo C.H.F.Peters scatenò una durissima critica sulle osservazioni di Watson con un lungo articolo pubblicato su Astronomische Nachrichten, 94: prima parte No. 2253 (16 aprile 1879) {A-0073.0094_.2253.18790416-0321_0336} pp. 321-336 ➤ ; seconda parte No. 2254 {A-0073.0094_.2254.18790425-0337_0340} p. 337-344 ➤ . Da notare che l’editore della rivista era suo fratello, C.A.F. Peters, che invece il 24 settembre 1878 si era vivamente congratulato con Watson, scrivendogli: Vi ringrazio, Signore, cortesemente per la gentile comunicazione della vosta scoperta di Pianeti Intramercuriali, e prendo la libertà di congratularvi per la vostra scoperta, che senza dubbio è di alta importanza per la Scienza. È un peccato che Le Verrier non abbia vissuto così a lungo per vedere questa conferma della sua supposizione sulla causa di alcuni disturbi del moto di Mercurio.
Il fratello, invece, non andò per il sottile. Elogiò l’ingegnosità dei congegni di misura escogitati da Watson, ma negò che potessero dare la precisione di misura di 5′, come affermato dall’autore, ma al massimo 20′; in questo modo, il disegno che egli aveva realizzato era inattendibile, e i suoi presunti pianeti non erano oggetti vicini alle stelle θ e ζ Cancri, ma le stelle stesse. È vero che Watson asserì di aver visto sia l’astro che θ Cancri, ma non allo stesso tempo; il fatto che fossero vicini fu una sua ricostruzione basata su misure inattendibili. Ora θ Cancri ha una luce biancastra, mentre Watson parlò di astri rossastri; ma potè trattarsi di un effetto spurio, dovuto alla polvere sul telescopio, o alla corona solare. Anche i dischi attribuiti agli astri devono essere stati fittizi; delle immagini planetarie avrebbero dovuto mostrare delle fasi falcate. Le osservazioni di Swift contraddissero, non confermarono, quelle di Watson.
Anche ammettendo l’osservazione di due oggetti attorno al Sole, dalle magnitudini stimate dagli autori Peters calcolò che avrebbero dovuto essere molto piccoli, con una massa milioni di volte inferiore a quella di Mercurio. Come potevano affermare di aver riscoperto il Vulcano immaginato da Le Verrier? E se erano così piccoli, come potevano aver scorto il loro disco? Nell’ultima parte dell’articolo, Peters criticò le presunte apparizioni passate del pianeta intramercuriale. Per convenienza, erano state associate allo stesso corpo delle macchie di diametro e moti molto differenti, osservate solo da osservatori occasionali, mentre gli esperti specializzati nel censimento delle macchie solari non avevano trovato niente. Lo stesso Le Verrier aveva elaborato la formula interpolatrice usata per generare le sue previsioni su cinque osservazioni eterogenee, dalle quali risultavano le più varie velocità di spostamento del presunto pianeta sul disco solare. Peters concluse dicendo che ul pianeta di grandi dimensioni sarebbe stato scoperto facilmente per la sua luminosità, mentre tanti piccoli “vulcanoidi” avrebbero dato luogo comunque a numerosissimi passaggi osservabili, riscontrabili numerosi nelle registrazioni giornaliere della macchie solari. La stessa teoria del moto di Mercurio richiedeva una revisione, dato che la discrepanza di 38″ nella precessione del suo perielio era stata determinata da Le Verrier su basi non certe.
La impietosa ma lucida analisi di Peters infrangeva un sogno, ma diversi astronomi, come C.A. Young, ne condivisero e accettarono le conclusioni. Non fu così per Watson, che credette nei pianeti intramercuriali sino alla sua morte, avvenuta l’anno seguente. In Astronomische Nachrichten, 95, No. 2263 (17 giugno 1879) {A-0073.0095_.2263.18790617-0101_0106} p. 101-106 ➤ rispose all’articolo di Peters, dicendo non posso indugiare a rispondere contro il suo travisamento dei fatti connessi con le mie osservazioni. Il suo dispositivo non era flessibile e precario come affermato da Peters, e consentiva una precisione di 2′; aveva dichiarato 5′ come limite superiore. Non aveva comparato la sua stella con θ Cancri, perché non possedeva un micrometro.
{A-0073.0095_.2263.18790617-0101_0106} p. 103 ➤ L’intero attacco del professor Peters sull’integrità delle mie osservazioni non è della minima conseguenza, siccome egli ha creato gli errori nel suo stesso cervello e li ha poi prodotti per assalirmi. Non intendo impegnarmi in alcuna controversia su questi argomenti e specialmente con una persona che era, al tempo delle osservazioni, oltre duemila miglia distante dal luogo in cui l’eclisse fu osservata.
Watson annunciò il suo prossimo trasferimento a Madison (Wisconsin), come Direttore del nuovo Washburn Observatory, dotato di un rifrattore Clark fa 15.6 pollici (secondo in USA solo al 26 pollici del Naval Observatory e al 18 pollici del Dearborn Observatory). Avendo preso servizio al nuovo osservatorio in ottobre, Watson fece ereggere a sue spese lo Student’s Observatory, che promise di attrezzare senza gravare sulle spese dell’Università del Wisconsin, perchè intendeva usarlo specialmente per lo studio del Sole e la ricerca dei pianeti interni: la sua ossessione.
L’11 gennaio 1881 si verificò un’eclisse molto sfavorevole, che durò solo mezzo minuto, con il Sole solo 11° sopra l’orizzonte. Eppure, anche questa volta si sparse la voce della scoperta di un pianeta intramercuriale, pare per opera di un giornalista troppo ambizioso. Nel frattempo, Watson stava costruendo il suo osservatorio speciale, la cui base era sottoterra; Watson credeva all’affermazione, infondata, secondo la quale osservando da dentro una cisterna o un camino si sarebbero potute osservare le stelle anche in pieno giorno. Contemporaneamente lavorò alla sua casa; mentre installava una fornace a vapore, contrasse la polmonite, che lo portò ad una morte improvvisa il 22 novembre 1880, a 42 anni. L’osservatorio solare fu completato dal nuovo direttore, E.S.Holden, e si rivelò un fallimento: non era visibile alcuna stella vicino al Sole! Il progetto fu abbandonato.
Anche l’eclisse del 17 maggio 1882 fu sfavorevole (un minuto) e fu osservata a Sohag, Egitto. L. Swift, che ancora credeva nei pianeti intramercuriali, si affidò all’osservazione di un oggetto brillante vicino al Sole per affermare, in una lettera a Emerson Edward Barnard (luglio 1882): Sono parzialmente incline a pensare che fu uno dei pianeti intramercuriali. Invece, le fotografie mostrano chiaramente la sua natura cometaria. Il 10 febbraio 1883 Swift scrisse a Barnard che sperava di rifarsi con l’eclisse del 6 maggio 1883, dimostrando la sua scoperta dei due pianeti intramercuriali; però non riuscì a partecipare alla spedizione americana (di 6 persone, guidata da E. S. Holden del Washburn Observatory) che si stabilì sull’isola Caroline, un piccolo atollo disabitato appartenente alle Line Islands o Sporadi equatoriali (Repubblica di Kiribati). Pochi giorni dopo si unì a loro un gruppo francese, guidato da Jules Janssen dell’Osservatorio di Meudon e comprendente Trouvelot da Meudon, l’italiano Tacchini da Roma e J. Palisa dell’Osservatorio di Vienna.
Holden riportò in “Report on the Eclipse of May, 6, 1883”, Memoirs of the National Academy of Sciences, 2 (1884) {A-0046.0002_.0000.18840000-0001_0146} p. 100-102 ➤ . Durante la totalità Holden cercò il pianeta intramercuriale, usando il rifrattore Burnham da 6 pollici (15 cm). Ben prima del giorno dell’eclisse, Holden aveva preparato una carta e memorizzato il campo stellare in cui il Sole sarebbe venuto a trovarsi. La sua idea era di fare spazzate in ascensione retta, con una larghezza ciascuna di circa 1° in declinazione. Scrisse:
{A-0046.0002_.0000.18840000-0001_0146} p. 101 ➤ Il 6 maggio iniziai a spazzare pochi secondi prima che la totalità cominciasse, e spazzai con cura e deliberatamente sullo spazio [di circa 23° per 6°] senza trovare nessun nuovo oggetto. Sono convinto che nessuna stella brillante quanto la magnitudine 5 e mezzo avrebbe potuto sfuggirmi. Vidi tutte le stelle di sesta magnitudine entro questo spazio eccetto le tre più vicine al Sole. Non vidi stelle di settima magnitudine da nessuna parte. *** È mia opinione, quindi, che alle future eclissi non sarà necessario dedicare un osservatore ed un telescopio all’ulteriore prosecuzione di questa ricerca, e io posso considerare il fatto della non-esistenza di Vulcano come definitivamente stabilito dalle osservazioni del Dr. Palisa e dalle mie proprie.
L’astrofilo britannico T.W.Backhouse ed altri osservarono il Sole nel 1884-1885, senza successo. Lewis Swift, tuttavia, continuò a credere ai pianeti intramercuriali, e lo scrisse in “The Intra-Mercurial Planet Question Not Settled”, Sidereal Messenger, 2 (1883){A-0087.0002_.0018.18831100-0242_0244} p. 242-244 ➤ .
Nel 1882 l’astronomo americano S. Newcomb pubblicò l’opera “Discussion and Results of Observations on Transits of Mercury from 1677 to 1881”, Astronomical Papers of the American Ephemeris and Nautical Almanac, 1, no. 6 (1882) {A-0041.0001_.0000.18820000-0367_0487} p. 367-487 ➤ in cui confermò che, come aveva trovato Leverrier, il moto del perielio di Mercurio era più veloce del previsto, ma aumentò la stima di questo eccesso da 38″ a 41″. Newcomb intraprese poi un lavoro considerevole: il rifacimento delle tavole dei pianeti interni, con la riduzione di 62.000 osservazioni meridiane, 4 volte quelle usate da Le Verrier, e di 4 nuovi passaggi di Mercurio e altri due di Venere. Mentre Leverrier usò costantemente un metodo che richiedeva lo sviluppo letterale delle equazioni di Lagrange per la variazione degli elementi orbitali, la teoria di Newcomb (che è contenuta in una serie di lavori pubblicati fra il 1891 ed il 1898) si basava su una forma semplificata e personalizzata del vecchio metodo di Laplace, spinto ad un livello di precisione anche superiore a quello raggiunto da Le Verrier.
Un altro notevole progresso rispetto al sia pur pregevolissimo lavoro di Le Verrier fu il tentativo, per la prima volta coronato da un certo successo, di determinare dei valori delle masse dei pianeti interni che risultassero coerenti con i moti di tutti e quattro, producendo un insieme di tati omogeneo. Ricordo che invece Le Verrier era partito assumendo i valori delle masse allora ritenuti più affidabili e si era reso conto solo nel corso dei calcoli che, ad esempio, la massa di Mercurio che aveva adottato era forse doppia di quella reale.
Ma bisogna dire che Newcomb ottenne un migliore accordo delle sue teoria con l’osservazione a prezzo di diverse assunzioni arbitrarie. Egli non riuscì a spiegare le discrepanze che Leverrier aveva trovato nel moto di Mercurio, e anzi ne trovò altre (sia pur più piccole) nel moto degli altri pianeti; tuttavia, le introdusse in forma empirica, rimandando ai posteri la loro interpretazione, ed in tal modo sia i valori delle masse che le teorie dei moti raggiunsero un livello di precisione tale che le sue tavole rimasero in uso per il calcolo delle effemeridi americane sino al 1984!
Vediamo in sunto la discussione delle discrepanze trovate nei moti dei pianeti interni, pubblicata nel suo libro “The Elements of the four inner Planets, and the fundamental constants of Astronomy”, Supplement to the American Ephemeris and Nautical Almanac 1897 (Washington, 1895) ➤ . Newcomb calcolò le differenze fra i valori delle quantità [de/dt], [e dῶ/dt], [di/dt], [sin i dΩ/dt] (valori per il 1850) calcolate ed osservate per i quattro pianeti interni. Per Mercurio trovò che la quantità [e dῶ/dt]=118.24 secondo le osservazioni, 109.76 secondo la sua teoria costruita in base alle azioni conosciute; la differenza inspiegata era allora 8.48 ± 0.43. L’eccentricità variava di poco intorno a 0.2056, quindi tale valore implicava che l’errore di era di circa 41″. Esistevano discrepanze abbastanza rilevanti anche in alcuni elementi di altri pianeti. Newcomb esaminò varie ipotesi per spiegare questi disaccordi.
- Non sfericità del Sole. Se il Sole non è sferico, ma ha la forma di uno sferoide schiacciato ai poli, la deformazione del suo campo gravitazionale si ripercuote sul moto dei pianeti, producendo fra l’altro una precessione del perielio delle orbite. Newcomb stimò che per produrre uno spostamento aggiuntivo di 41″ nella linea degli apsidi di Mercurio il Sole avrebbe dovuto presentare uno schiacciamento non trascurabile, portando ad una differenza di circa 1″ fra il diametro equatoriale e quello polare. Ma le ricerche di Auwers dimostrarono che il disco solare appariva praticamente circolare, con una precisione ben al disotto di questo limite. Dunque l’ipotesi appariva inammissibile. Scartò anche l’ipotesi di materia immediatamente attorno alla fotosfera, a forma di anello.
- Anello intramercuriale o gruppo di planetoidi. Considerò l’ipotesi di un anello circolare di pianetini intramercuriali, cercando di determinare le perturbazioni prodotte sui perieli e sui nodi delle orbite dei pianeti interni. Trovò che l’anello avrebbe dovuto avere un’inclinazione di 9° sull’eclittica: fatto alquanto strano. Si avrebbe potuto sostituire l’anello di piccoli corpi con un unico corpo maggiore, ma Newcomb valutò che difficilmente un corpo del genere sarebbe sfuggito sino allora all’osservazione.
- Estesa massa di materia diffusa come quella che riflette la luce zodiacale. Valutò che tale ipotesi non era in grado di giustificare qualitativamente i fenomeni osservati.
- Anello di planetoidi fra Mercurio e Venere. Calcolò che le perturbazioni di Mercurio e Venere potevano essere rappresentati da un anello con queste caratteristiche: massa totale 1/37.000.000 del Sole; distanza media 0.48; eccentricità 0.04; inclinazione 7°.5; probabile diametro alla distanza unitaria della massa agglomerata in un unico pianeta 3″.5. Discutendo le ipotesi precedenti, concluse che difficilmente le distribuzioni di materia considerata avrebbero potuto spiegare tutti i fenomeni osservati e l’invisibilità del materiale.
- Imprecisione della teoria gravitazionale di Newton. Newcomb discusse un’ipotesi formulata da Asaph Hall, lo scopritore dei satelliti di Marte, in Astronomical Journal, 14 {A-0079.0014_.0319.18940602-0049_0051} p. 49-51 ➤ , secondo cui la vera legge di gravità non sarebbe G m1 m2/r2, come affermava Newton, ma una legge simile, dotata di un’esponente N poco diverso da 2. Con N=2.00000016 si sarebbe prodotto lo spostamento aggiuntivo osservato nel perielio di Mercurio.
Newcomb calcolò che l’esponente N=2.0000001574 avrebbe giustificato il corretto spostamento del perielio di Mercurio, ma non tutte le altre perturbazioni negli elementi degli altri pianeti; difatti l’ipotesi di Hall poteva spiegare solo la perturbazione delle longitudini del perielio. Newcomb cercò di mettere d’accordo il più possibile i valori delle masse dei 4 pianeti e le correzioni da apportare ai loro elementi per ottenere la migliore coincidenza con le osservazioni.
La correzione finale adottata per lo spostamento del perielio di Mercurio fu 43″.37; applicando la legge gravitazionale modificata con N=2.0000001612 attribuì ai perieli degli altri pianeti correzioni di 16″.98 (Venere), 10″.45 (Terra) e 5″.55 (Marte). Da notare che Newcomb adottò l’ipotesi di Hall solo come artificio per ripartire in modo equo le correzioni fra i 4 pianeti, ma mostrò dubbi sulla sua reale consistenza fisica. Dunque non arrivò ad alcuna conclusione definitiva, dichiarando però la sua diffidenza per l’ipotesi del pianeta intramercuriale.
Che ne fu di Lescarbault? Era sin da subito scivolato nell’ombra, astenendosi dal commentare le vicende dei presunti avvistamenti successivi al suo. Quando l’osservazione di Weber del 4 aprile 1876 fu salutata come una riscoperta di Vulcano, l’Abbé Moigno si congratulò con Lescarbault, ma questi sembra abbia appreso la cosa con indifferenza. Durante l’invasione tedesca della Francia nel 1870, la soldataglia aveva distrutto l’osservatorio e la sua biblioteca. Forse, non gradiva alcun tipo di favore dai tedeschi. Ciò nonostante, non cessò di compiere osservazioni astronomiche, come poteva, inviandole al l’Académie des Sciences. Da una sua lettera al Segretario perpetuo (11 gennaio 1891), Comptes Rendus, 112 (19 gennaio 1891) :
{A-0080.0112_.0003.18910119-0152_0153} p. 152-153 ➤ Ho l’onore di inviarvi il risultato dell’osservazione di una stella comparabile a Regolo per la sua grandezza e per il suo splendore; essa è situata nella stessa costellazione; non l’avevo mai scorta fino a questo giorno. Essa si trova al disotto di θ del Leone, sul prolungamento della linea che congiunge δ a θ, ad una distanza da θ doppia di quella che separa queste due stelle e al disotto della linea che va da σ a χ, circa ugualmente distante da ciascuna di esse. Non ho potuto ancora osservarla che ad occhio nudo, i giorni 10 e 11 gennaio, verso l’una del mattino; malgrando un grande indebolimento dei miei occhi, credo di aver visto bene e di non essere stato vittima di una illusione…
Non è che per stima che attribuisco alla stella, sia nuova, sia temporanea, che è forse una stella la cui intensità e splendore sarebbero quasi improvvisamente prodigiosamente aumentati, le quantità seguenti per la sua posizione: …..
Nella vicinanza della stella che io segnalo, le stelle di quarta grandezza erano appena visibili ad occhio nudo. Negli Atlanti e nelle Carte che io posseggo, non ho trovato alcuna stella nel luogo che ho appena indicato.
Da Comptes Rendus, 112 (26 gennaio 1891) {A-0080.0112_.0004.18910126-0260_0260} p. 260 ➤ : M. Flammarion fa osservare che l’astro segnalato l’11 gennaio da M. Lescarbault nella costellazione del Leone, come una stella nuova, non è altro che Saturno.
Che figura! Lescarbault aveva controllato gli Atlanti in cerca di una stella, ma non le effemeridi in cerca di un pianeta, o le aveva consultate male. Un errore grossolano, che può succedere a 77 anni d’età. Ad ogni modo, penso che il buon dottore non abbia più avuto il coraggio di scrivere; una brutta uscita di scena. Flammarion, da sempre ostile a Leverrier e al suo beniamino Lescarbault, deve aver goduto di questa figuraccia, come se quell’errore in età avanzata potesse gettare un’ombra sulle sue facoltà di quell’uomo più di trent’anni prima.
L’ultimo tenace assertore dell’esistenza dei pianeti intramercuriali, Lewis Swift, riconobbe di non credere nell’osservazione del 1859: forse Lescarbault aveva visto una macchia rotonda, e si era sbagliato nel valutarne il moto. Tuttavia, nel suo articolo “Intra-Mercurial Planets”, English Mechanic and World of Science, 49 (25 settembre 1896) {A-0423.0049_.1644.18960925-0135_0135} p. 135 ➤ difese la sua fede per i pianeti intramercuriali, che era stata varie volte derisa in quelle stesse pagine dal caustico “FRAS”, pseudonimo del Capitano William Noble. Questi nel numero del 9 ottobre a p. 182, commentò impietosamente:
{A-0423.0049_.1646.18961009-0182_0183} ➤ Sono sinceramente lieto di trovare la mia completa incredulità nell’esistenza di Vulcano condivisa da un’autorità così competente come il Dr. Swift. Quando sappiamo che il Dr. Lescarbault ‘scoprì’ Saturno! e comunicò la sua scoperta all’Accademia Francese delle Scienze, io penso che ogni persona senza pregiudizi concorderà con me che ogni osservazione astronomica che egli possa affermare di aver fatto non è degna del fiato con cui essa fu descritta o della carta in cui un resoconto di essa fu scritto.
Data l’inaffidabilità delle osservazioni visuali, i pianeti intramercuriali furono cercati con mezzi fotografici, forse non tanto per una vera fede nella loro esistenza, quanto per provare in modo definitivo il contrario. Le ricerche (infruttuose) di William Henry Pickering si trovano in Harvard Circular, 48, (13 febbraio 1900), ristampato in Astrophysical Journal, 11 (1900) {A-0092.0011_.0004.19000500-0322_0324} p. 322-324 ➤ . Durante l’eclisse del 18 maggio 1901, visibile a Sumatra, C. G. Abbot cercò il pianeta con una camera fotografica a grand’angolo, ma senza successo.
C. D. Perrine del Lick Observatory nelle sue spedizioni del 1901, 1905 e 1908 coprì una regione estendentisi 12° ad est ed ovest del Sole, che mostrava un gran numero di stelle (ben 506 nelle lastre del 1908, la maggior parte delle quali troppo debole per essere vista ad occhio nudo) ma nessun oggetto non identificabile con una stella nota. Le osservazioni si erano spinte sino la magnitudine 9, e la dimensione di pianeti di notevoli dimensioni sembrò poter essere esclusa.
Nel 1909 W. W. Campbell, direttore dell’Osservatorio Lick (Mount Hamilton, California), valutò che Vulcano tutt’al più poteva raggiungere 50 km di diametro (anche assumendo un’albedo bassissima) e quindi semmai poteva definirsi un’asteroide, non un pianeta. Ci sarebbe voluto un milione di corpi del genere per produrre la precessione di 43″ al secolo. Campbell pubblicò un articolo dal titolo significativo, “The Closing of a Famous Astronomical Problem”, Popular Science Monthly, pp. 494-503 (maggio 1909); ristampato in Publications of the Astronomical Society of Pacific, 21 (10 giugno 1909) {A-0097.0021_.0126.19090610-0103_0115} p. 103-115 ➤ .
{A-0097.0021_.0126.19090610-0103_0115} p. 111 ➤ Prendendo tutti questi punti in considerazione, penso che possiamo dire che le investigazioni di Perrine, formanti parte del lavoro della Crocker Eclipse Expeditions dell’Osservatorio Lick, hanno portato la parte osservazionale del Problema Intramercuriale, famoso per mezzo secolo, definitivamente ad una chiusura. Non si intende che nessuno di tali pianeti sarà scoperto in futuro; infatti, non sarebbe sorprendente, né in opposizione con le opinioni espresse qui, se vari di questi corpi venissero scoperti; ma si pensa in modo confidente che ciascuno di tali corpi fallirà senza speranza di fornire la grande massa di materiale richiesta dalla teoria di Le Verrier, come Perrine fece notare discutendo le osservazioni di Sumatra del 1901.
Campbell proseguì l’articolo discutendo il lato teorico del problema: le ricerche di Newcomb e la teoria di Seeliger di una nube di materia che produce la luce zodiacale. Ma tutte queste ipotesi furono superate dalla geniale e rivoluzionaria spiegazione data da Albert Einstein nel novembre 1915 nell’ambito della Teoria della Relatività Generale: un teoria della gravitazione completamente nuova, in cui gli effetti reciproci fra i corpi non sono dovuti a forze che agiscono a distanza, ma alla curvatura dello spazio-tempo. Semplificando i sistemi di equazioni tensoriali fornite dalla teoria di Einstein, in modo da eliminare dei termini piccoli, si possono ottenere delle equazioni sufficientemente approssimate, dello stesso tipo di quelle date dalla teoria di gravitazione di Newton, però con l’aggiunta di alcuni termini speciali. Questi possono essere usati per determinare, con i tradizionali metodi della teoria delle perturbazioni, le differrenze fra i moti prescritti dalle due teorie della gravitazione.
Fu grande l’emozione di Einstein quando verificò che le variazioni inspiegabili negli elementi orbitali segnalate prima da Leverrier, e poi da Newcomb, erano perfettamente giustificate semplicemente inserendo quei termini aggiuntivi, senza alcun bisogno di ipotizzare grandi quantità di materia non ancora scoperte. Per meglio dire, Einstein ha mostrato che l’anello di materia intramercuriale ipotizzato da Leverrier non solo non serve più, ma anzi non deve e non può esistere, se non con una massa molto modesta. Difatti il contributo della sua attrazione sui pianeti interni deve essere insignificante, perchè il loro moto è gia spiegato solo sostituendo la teoria di Newton con quella contenuta nella Teoria della Relatività. Questa fu la vera “chiusura” dell’annoso problema.
A patto, però, di recepire ed accettare la rivoluzione di pensiero imposta dalla teoria di Einstein. Non fu facile, perlomeno per qualche decennio, per cui ci fu chi ignorò la spiegazione data dal fisico tedesco, e proseguì le ricerche su altre strade. Campbell e Trumpler avevano spinto le loro indagini dei dintorni del Sole fino a registrare stelle di 10m ad un’elongazione di 10° (quella di Mercurio è fra 18° e 28°). Trumpler poi si rivolse alla ricerca di pianeti nei punti lagrangiani dell’orbita di Mercurio, cioè nelle posizioni di equilibrio gravitazionale situate 60° in longitudine avanti o dietro il pianeta stesso. Questa teoria dei punti di equilibrio, dovuta a Lagrange nel 1772, trovò la prima dimostrazione pratica il 22 febbraio 1906, quando M. Wolf dell’Osservatorio di Heidelberg scoprì il primo di quelli che furono poi chiamati “pianetini Troiani” (in quanto battezzati con i nomi dei personaggi omerici), che effettivamente libravano (oscillavano) intorno all’uno o l’altro dei due punti lagrangiani equilateri (o “triangolari”) del sistema Sole-Giove.
L’astronomo svedese C.V.L.Charlier nel 1912 ipotizzò che ci potessero essere dei corpi come i troiani di Giove, ma sui punti di Lagrange L4 e L5 dell’orbita di Mercurio [A.N. {A-0073.0193_.4623.19130108-0269_0272} p. 272 ➤ ]. Nel 1914 il suo collega all’Osservatorio di Lund, H. Block, dimostrò che, benché Lagrange avesse ottenuto il suo risultato nell’ipotesi di un’orbita circolare del pianeta, i punti di equilibrio sussistevano anche sull’orbita alquanto eccentrica di Mercurio. [Arkiv for Matematik, Astronomi och Fysik, 10 (1914)] Charlier compì osservazioni all’eclisse del 1914, ma le immagini nei punti triangolari risultarono molto nebulose. Seguì un interruzione per la guerra, e nel 1921 Charlier decise di chiedere aiuto a Robert Trumpler del Lick Observatory. Trumpler pubblicò i suoi risultati in “Search for Small Planets at the Tringle Points of Mercury and the Sun”, Publications of the Astronomical Society of Pacific, 35 (1923) {A-0097.0035_.0208.19231200-0313_0318} p. 313-318 ➤ . I risultati furono negativi, portandolo alla conclusione che in quelle posizioni non potevano esistere corpi di diametri maggiori rispettivamente di 20 e 60 km (1923).
Il 19 giugno 1971 Harry C. Courten del Dowling College, Oakdale (N. Y.) in un convegno a Seattle discusse le fotografie ottenute durante le eclissi del 1963, 1966, 1968 e 1970, dimostrando la presenza di corpi celesti non identificati nei dintorni del Sole. In varie occasioni degli oggetti non stellari furono registrati da luoghi di osservazione leggermente separati; tutti giacevano entro 5° dal Sole, ed avevano magnitudini visuali equivalenti fra 6 e 9. Per tre di questi oggetti furono determinate orbite eliocentriche a circa 0.1 U.A. dal Sole. Courten ipotizzò un oggetto con diametro fra 130 e 800 km.
È più ragionevole la supposizione dell’esistenza di piccolissimi corpi (forse solo pochi km) in orbite vicine al Sole. E’ stata formulata l’ipotesi che si tratti dei frammenti di un corpo più grande, forse uno dei pianeti relativamente importanti segnalati all’epoca di Lescarbault. Questa appare l’ultima possibilità prima di screditare definitivamente le osservazioni del secolo scorso. Il planetologo americano Don Davis, con i suoi colleghi dell’Università di Tucson, ha ipotizzato l’esistenza di un anello di asteroidi vicino al Sole, che ha chiamato vulcanoidi. Ha intrapreso una ricerca mediante un telescopio del Kitt Peak Observatory, dotato di un rivelatore di radiazione infrarossa (i caldissimi vulcanoidi sarebbero più facilmente rilevabili nell’infrarosso che nella luce invisibile). Davis spera di poter individuare nel cielo diurno corpi non più grandi di qualche km a pochi gradi di distanza dal Sole.